Alessandra Smerilli: Nella società di oggi abbiamo bisogno di Chiesa in ascolto

Redazione1
di Redazione1 Luglio 11, 2019 22:22

Alessandra Smerilli: Nella società di oggi abbiamo bisogno di Chiesa in ascolto

= Suor Alessandra Smerilli, religiosa delle Figlie di Maria Ausiliatrice, Docente di Economia presso la Pontificia facoltà di Scienze dell’Educazione “Auxilium”, affronta il tema della crisi della società attuale e del ruolo che la Chiesa è chiamata a svolgere = (A.Monda/Osservatore Romano/ 04 lugl. 2019).

Giuseppe De Rita (presidente del Censis) su queste pagine ha affermato che per il buon governo c’è bisogno di due autorità: una civile e una spirituale-religiosa. Quella civile garantisce la sicurezza, quella spirituale offre un orizzonte di senso. L’uomo ha bisogno di tutte e due le cose.  Quale potrebbe essere il ruolo della Chiesa nell’attuale situazione italiana?

Sono d’accordo con quanto afferma De Rita, anche se vedo la situazione italiana in questo momento abbastanza complessa e delicata. C’è sempre stato, e credo ci sarà sempre un bisogno di sicurezza e al tempo stesso di un orizzonte di senso. Ma due autorità sono sufficienti a garantire questo quando la società è un corpo? Oggi avvertiamo disgregazione, mancanza di fiducia nelle istituzioni.  In Italia abbiamo tanti microcosmi a volte non comunicanti tra di loro, le appartenenze si fanno più deboli e mutano in continuazione. Di fronte a tutto questo credo che innanzitutto la Chiesa ne debba prendere atto con coraggio e senza nostalgia. In secondo luogo è la trama delle relazioni sociali e spirituali che va ricostruita. E questo lo si fa mettendosi con umiltà accanto alle persone lì dove sono, nella logica di una Chiesa missionaria.

Durante i lavori del Sinodo sui giovani di ottobre 2018 è emersa l’icona dei discepoli di Emmaus come chiave di lettura di una Chiesa a misura di giovani. Credo sia anche l’icona di una Chiesa a misura della contemporaneità: Gesù si fa incontro, cammina con i discepoli, suscita domande e ascolta. In Italia abbiamo bisogno di una Chiesa in ascolto, vicina alla gente, che si ferma nei villaggi, e quindi nelle periferie. Tutto questo è già in atto, ma forse va fatto con più decisione, nella comprensione che siamo davanti a un mondo, soprattutto di giovani, che da noi non si aspetta nulla e che non ha le categorie per interpretare parole e segni che per noi sono forse scontati. Saranno le nostre parole a dover cambiare? Lo potremo comprendere solo insieme e mettendoci in ascolto.

La società italiana oggi sembra dominata dal rancore. Da dove nasce questo rancore? De Rita dà una sua lettura, quasi un lutto per quello che non c’è stato, una promessa mancata, un futuro che sembra incrinato. La situazione economica e sociale in Italia è preoccupante, ma la narrazione che ne viene fatta è avvilente e preoccupa ancora di più: sembra che non abbiamo scampo, e questo ci indigna, ci fa sentire rassegnati e aumenta il rancore. E il rancore porta anche ad una colpevolizzazione di chi non ce la fa. Se una persona è povera, se disoccupata, se rimane indietro, è colpa sua. Una non bene intesa cultura del merito porta a legare il successo e la realizzazione nella vita ai propri sforzi. Ma sappiamo bene che non è così.

Recenti ricerche citano il cosiddetto paradosso della meritocrazia: processi di selezione meritocratica che enfatizzano il valore del merito, finiscono per generare “vincitori” che tendono ad escludere altri. Basta solo l’idea dell’essere più abili di altri a rendere le persone più favorevoli a esiti non equi. Quando il successo è determinato dal merito, ogni vittoria può essere vista come il riflesso delle virtù e del valore di una persona.

Tra gli imprenditori di successo ci sono molte persone premiate solo dal caso, e tra i falliti ci sono molti che hanno semplicemente trovato il vento sfavorevole. Questo non vuol dire che le persone di successo non abbiano meriti, ma che il legame tra merito e risultato è solo debole e indiretto. Sentirsi persone di successo perché meritevoli crea meccanismi di esclusione. Il clima attuale inoltre, è favorevole ad una grande confusione in termini di lettura della situazione, ma anche di soluzioni. Abbiamo bisogno di chiarezza di pensiero, di unire le forze migliori, di mettere mano da una parte ai problemi più gravi, come quello della povertà giovanile e della conseguente emigrazione, accompagnata dal costante calo delle nascite. Dall’altra parte è necessario comprendere che le soluzioni non possono essere di breve, brevissimo periodo, per poter invertire la rotta.

Il punto è che i malesseri italiani hanno soprattutto radici interne, quali per esempio corruzione, evasione fiscale, lentezze burocratiche e difficoltà a fare rete. Cercare il nemico fuori di noi da combattere è più facile, ma non risolverà i nostri problemi più gravi. E paradossalmente il dare risalto all’identità non sta diventando un collante sociale. Anzi, ci mette gli uni contro gli altri, in una guerra tra poveri, perché le identità sono tante e come a cerchi concentrici: superata una soglia ci sarà sempre qualcuno che può essere escluso dal cerchio.

Il Papa propone ormai da anni il tema, anzi il metodo, della sinodalità, cioè il camminare insieme, il conoscersi, il fare qualcosa insieme, alto e basso che si intrecciano armoniosamente. Si avverte però un po’ di fatica a capire bene come realizzare questa sinodalità all’interno della Chiesa e della società, come mai?

La sinodalità è un’istanza del Concilio Vaticano II che ancora stenta a prendere corpo. Camminare insieme richiede una grande capacità di ascolto, quell’ascolto vero che cambia tutti coloro che partecipano al dialogo. Capire che la Chiesa non è la Cei o il Vaticano ma il popolo di Dio. Una condizione necessaria per dar vita a processi sinodali è quella di un grande distacco da se stessi, di apertura e disponibilità ad ascoltare insieme la voce dello Spirito.

 

 

 

 

Redazione da Ag. di I.

 

 

 

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