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#ComunitàConvergenti, le difese dal potere degli algoritmi che guidano le strategie dei social network
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Negli ultimi tempi si discute molto di come gli algoritmi, di fatto, condizionino sempre più la nostra vita digitale, e dunque come una parte sempre più consistente della nostra esistenza, del nostro tempo, venga assorbita in un circuito di interazioni guidato da un’intelligenza artificiale sconosciuta, il cui “motore” è fornito dai nostri dati personali. E si cerca come scongiurare il pericolo concreto di rimanere imprigionati in un ambito di interconnessioni automaticamente dirette, secondo un procedimento sistematico di calcolo che lede in gran parte la libera possibilità di sceglierne la direttiva. Di questa importante problematica, che pone anche quesiti di carattere identitario, relazionale, sociale e morale, si è parlato in modo approfondito, ad Assisi, nel recente Convegno #ComunitàConvergenti, dalle social network communities alla comunità umana, svolto dal 9 all’11 maggio.
Della società digitale con i suoi diritti, doveri e poteri, ha parlato Antonello Soro, presidente Garante per la protezione dei dati personali: “Le straordinarie potenzialità delle nuove tecnologie esigono uno statuto di regole capace di restituire alla persona quella centralità altrimenti negata dall’economia digitale, fondata sullo sfruttamento dei dati”. “Il 95% degli internauti si concentra sullo 0.03% dei contenuti potenzialmente disponibili, per effetto della gerarchizzazione delle notizie determinata dai motori di ricerca, in base a criteri tutt’altro che neutri perché desunti anche dal nostro comportamento on line”, è il grido d’allarme dell’esperto. Di qui la necessità di “tutelare i profili”, per arginare lo strapotere dei “giganti” dell’economia digitale e governare gli algoritmi.
Lo sfruttamento dei dati è la materia prima di un nuovo capitalismo estrattivo alimentato da frammenti, spesso delicatissimi, della nostra vita. La stessa rete sta subendo una trasformazione radicale, perdendo la sua capacità generativa con il rischio di ridursi a quei minimi interstizi che residuano nell’incrocio di piattaforme sempre più estese e potenti, alimentate dagli utenti, spesso ignari di cedere, in cambio di utilità piccole o grandi, frammenti della propria libertà. Ma la monetizzazione dei dati personali e, con essi, dell’identità individuale non è il solo rischio cui un utilizzo incontrollato delle nuove tecnologie può portare, in assenza di un governo lungimirante che ne orienti lo sviluppo in funzione della persona.
L’algoritmo apprende dal nostro comportamento passato e rafforza, e conferma, le nostre opinioni, indebolendo quell’etica del dubbio che è il presupposto necessario del rispetto delle diversità e di ogni altra attitudine democratica. La bolla di filtri autoreferenziale in cui ci muoviamo rischia, dunque, di renderci sempre più intolleranti verso le differenze, negando il pluralismo informativo e le stesse straordinarie opportunità di arricchimento cognitivo che pure la rete potrebbe offrire.
Don Ivan Maffeis, sottosegretario della Cei e direttore dell’Uffizio nazionale per le comunicazioni sociali, parlando di “convergenza” e “intermediazione”, antidoto ad “algoritmi”, ha detto che la deriva da contrastare è quella di “una comunità difensiva”, in virtù della quale “ci si richiude in cerchie ristrette o nei propri gusci protettivi”. Oggi, infatti, per Maffeis, siamo di fronte a “comunità che sembrano avere il bisogno di un pericolo, di una minaccia per rafforzarsi”: e in rete questa tendenza è più evidente, come denuncia il Papa quando parla della “community” come di “un aggregato di individui caratterizzati da legami deboli”.
“Se quella che è una finestra sul mondo diventa uno specchio narcisistico, non è colpa della rete: tutti noi siamo partecipi della cultura digitale”, ha precisato il direttore dell’Ucs facendo notare che “i social media sono diventati il nostro tessuto connettivo: la nostra biografia, i nostri testi, le nostre applicazioni, la colonna sonora della nostra vita, quasi uno storytelling di noi stessi”. Di qui la necessità di “ripensare il linguaggio” della comunicazione, tenendo conto “del rapporto paritario, e non più semplicemente passivo, con il destinatario”. Papa Bergoglio ha indicato anche il rischio di rendere gli utenti della rete degli eremiti sociali: paradossalmente, proprio la società della comunicazione globale rischia di non conoscere più la relazione umana, mentre “la rete non è alternativa ma complementare all’incontro con carne ossa. Bisogna riappropriarsi, in forma nuova, di un ruolo di intermediazione differente da quello degli algoritmi”.
Vincenzo Corrado, direttore del Sir appena nominato e vicedirettore dell’Ufficio Cei per le comunicazioni sociali, ha tenuto a sottolineare, provocatoriamente, che “La disinformazione è parte di noi. Ci siamo assuefatti alla riduttività con cui si leggono i fatti, compresi quelli religiosi”. “Non ci chiediamo più ciò che è vero o falso, se una notizia è vera o falsa”, ha proseguito il relatore: “Sono domande che iniziano a cadere anche in chi esercita la nostra professione, visto la velocità sempre crescente del flusso di informazioni in cui siamo immersi”. “Nei destinatari dell’informazione sta venendo meno la passione per la verità”, è il grido d’allarme di Corrado: “e spesso è colpa nostra, perché non riusciamo più a trasmetterla. Se una cosa è vera o verosimile non interessa: nessuno si pone più la domanda se qualcosa sia reale o no, se accada veramente”. “Per avere un clic in più, ci stiamo autotradendo”, è la tesi di Corrado: “Se non riusciamo più a trasmettere la passione per la verità, finiremo per perdere la nostra coscienza, che è la cosa più importante”. In realtà, invece, “i social nascono per favorire la comunità”, come scrive Papa Francesco.
E’ fondamentale essere “attori non solo della propria esperienza”, ma “capaci di rompere le logiche degli algoritmi e dei circuiti chiusi”. È uno dei progetti di “cittadinanza mediale” portato avanti dall’Aiart, e raccontata dal suo presidente, Giovanni Baggio, nell’ultima giornata del Convegno Cei: “Oggi siamo tutti produttori di comunicazione”, ha fatto notare il relatore, sottolineando l’urgenza di “educare non solo all’uso delle nuove tecnologie, ma a ciò che mettiamo in rete”.
Redazione da Ag. di I.
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